Viene qui proposta una lezione, elaborata in forma di intervista da Lisa
Dal paesaggio “sublime” al “paesaggio Auschwitz”. Il soggetto: massimo e minimo di uomo
- Gentile prof Zanin, stiamo facendo una ricerca sul concetto di paesaggio. Qual è secondo lei la condizione essenziale perché si dia un paesaggio?
Dal mio punto di vista la condizione essenziale dell’esistenza di un paesaggio è la presenza dello spettatore, infatti il paesaggio esiste solo se c’è chi lo guarda. Un’ottima esemplificazione di come si crea un paesaggio, la possiamo trovare nel famoso quadro Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich del 1818. Ciò che si vede è riconducibile alla seguente equazione:
P = S + A
- Cosa significa?
Nella equazione io pongo P come Paesaggio, S come Soggetto e A sta per Ambiente (naturale o urbano è lo stesso).
Il fulcro di tutto è però S, in quanto è il “Soggetto” che dà senso alle cose.
- Come si pone allora il soggetto di fronte al paesaggio?
Il soggetto non è affatto uno spettatore neutro, ininfluente, al contrario è colui che crea quel paesaggio, che lo fa essere in quanto tale. Come afferma l’antico filosofo Protagora: “L’uomo è misura di tutte le cose”; infatti il paesaggio nasce nel momento in cui l’uomo si afferma come soggetto.
- Quindi è il soggetto che rende possibile l’esistenza del paesaggio; ma come retroagisce il paesaggio sul soggetto stesso?
Agisce arricchendolo culturalmente, esteticamente e psicologicamente. Per esempio chi vive in un paesaggio deprimente più facilmente maturerà anche delle “passioni tristi”, chi invece vive in un paesaggio esaltante sarà più propenso alla “letizia” e alla positività.
- Ora, però, come dobbiamo intendere l’uomo in quanto soggetto?
La massima espressione di cos’è “uomo” (in quanto soggetto e cittadino) è ricavabile dall’Articolo 2 della Costituzione:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
- Perchè parla di “massima espressione” di umanità?
Perché qui si identifica l’uomo come il portatore di “diritti inviolabili” e, al contempo, di “doveri inderogabili di solidarietà”. Diritti e doveri si completano reciprocamente.
- Ma dove sta il massimo, ci deve essere anche il minimo; quindi saprebbe dirci qual è il minimo di uomo?
Per esprimere questo concetto è però necessario affrontare un tipo di paesaggio totalmente diverso rispetto a quello di Friedrich e fare un salto nel passato fino al 27 gennaio 1945, quando i soldati dell’Armata rossa entrarono nel Campo di Auschwitz, la più grande fabbrica di sterminio mai realizzata nella storia.
- Perché utilizza il termine “fabbrica” per definire il Campo di Auschwitz?
Uso il termine “fabbrica” perché deve essere chiaro che la Shoah non è stata la momentanea caduta in una condizione di barbarie e di bestialità, quanto piuttosto uno degli esiti, per quanto mostruoso, della razionalità moderna. Naturalmente parliamo della razionalità “strumentale”, cioè del “come” fu possibile realizzare lo sterminio di 6 milioni di persone in così breve tempo e mentre era in corso un conflitto mondiale: se si vuole realizzare un progetto di sterminio di 6 milioni di persone, bisogna allestire impianti e apparati logistici come se si realizzasse un colossale progetto d’impresa industriale; è necessario agire con estrema razionalità, non si può improvvisare. Non parliamo invece di razionalità dei fini, cioè del “perché” della scelta della soluzione finale, che invece appare come l’atto finale di un processo di vera e propria “distruzione della ragione”: non necessariamente lo sviluppo tecnico coincide con il progresso umano.
E così, come nella fabbrica capitalista Marx individua il luogo dell’alienazione del lavoratore, alla stessa maniera nel campo di sterminio assistiamo alla consapevole realizzazione di un processo di alienazione dell’internato, amplificato fino alle più estreme conseguenze.
- Perché parla di alienazione?
Parlo di alienazione perché è evidente che, per riuscire a sterminare 6 milioni di persone, si deve fare in modo che le vittime, in primo luogo, perdano di sé la consapevolezza di essere uomini.
Nel capolavoro di Primo Levi Se questo è un uomo, si parla proprio di questo. L’incipit dell’opera, che è una poesia, formula proprio questa domanda:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
In alcuni punti del libro l’analisi di Levi si fa quasi scientifica, richiamando anche lo stile di Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (solo che qui non si tratta di esperimenti mentali):
"Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita".
E ancora:
"Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base a un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo".
- “Giacere sul fondo”, essere “sommersi”: esiste quindi secondo lei un limite, al di sotto del quale un uomo non è più un uomo?
Ce lo spiega Primo Levi parlando di Null Achtzehn, che nel gergo del campo, veniva detto un “mussulmano”, una specie di morto vivente:
Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che così, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote.
- Non tutti gli internati, però, sono come Null Achtzehn?
Per un verso, chi è entrato nel campo per il solo fatto di esserci entrato, sa di essere vicino al fondo, a un passo dall’abisso in cui è precipitato Null Achtzehn:
Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome. E se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Dall’altra parte, c’è una sorta di vergogna in chi, come Primo Levi è sopravvissuto all’abisso:
non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. (…) Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto (…). I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale.
- Cosa può dirci invece degli “aguzzini”? A che tipo di umanità appartengono (sempre che siano umani)?
Potrei citarvi il saggio I sommersi e i salvati, sempre di Primo Levi, in cui egli affronta l’argomento in questi termini:
Ci viene chiesto dai giovani (…) chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.
Quello dell’educazione è un tema decisivo; ed è il motivo per cui è fondamentale parlare di queste cose a scuola.
- Che tipo di educazione era fornita a quei tempi nei Paesi dominati dai fascismi?
Era chiaramente molto diversa da quella odierna, infatti nella Germania nazista un bambino delle elementari poteva essere chiamato a risolvere problemi come il seguente:
Un malato di mente costa allo Stato 4 marchi al giorno, un invalido 5,50, un delinquente 3,50. Un impiegato statale guadagna 3,50 marchi per ogni componente la sua famiglia e un operaio non specializzato meno di 2. In Germania i malati di mente ricoverati sono circa 300.000. Calcola: a) quanto costano complessivamente questi individui ad un costo medio di 4 marchi al giorno; b) quanti prestiti di 1.000 marchi si potrebbero fare all’anno con quella somma.
Nel libro di testo fascista, dopo la promulgazione delle leggi razziali, un bambino imparava che il meticcio “è un individuo fisicamente e moralmente inferiore”. L’educazione non riguarda però soltanto la famiglia e la scuola: c’è tutto il contesto da considerare, il conformismo rispetto a quello che è lo spirito dei tempi. Questo vale allora come oggi.
Nel 2006 Jonathan Littell, giovane scrittore americano, di origini ebraiche, ha pubblicato un romanzo, Le benevole (un libro duro, complesso, ostico), in cui si racconta di un ex ufficiale delle SS, sopravvissuto alla guerra, divenuto una persona “normale” dopo aver cambiato identità, che decide di scrivere le sue memorie. C’è un passaggio fondamentale, all’inizio del romanzo, dove il protagonista, Maximilian Aue, dice:
siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell’altro. Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato della storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l’eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo.
- Ci può spiegare meglio questo passo del romanzo?
L’idea fondamentale espressa in questo passo è che nessuno deve essere così arrogante da pensare di non potere un giorno diventare la vittima di una persecuzione, così come non può escludere a priori di poter diventare un carnefice; bisogna vigilare, fare molta attenzione a quei segni che rivelano una sostanziale indifferenza nei confronti della condizione del prossimo. Faccio un esempio, ricavandolo dal capolavoro di Boris Pahor, Necropoli:
Quando (…) nel pomeriggio attraversammo Niedersachswerfen sulla via del ritorno, e le file trascinavano a fatica le gambe gonfie, (…) incrociammo due ragazze. Non si voltarono nemmeno. (…) non si accorsero neppure della lunga processione formata da seicento uniformi zebrate; per loro era come se la strada fosse deserta, liscia, coperta solo dalla crosta di neve che copriva il selciato e i marciapiedi. È possibile, allora, inoculare negli uomini un disprezzo così radicale per le razze inferiori da far sì che due ragazze, camminando sul marciapiede, riescano a far sparire con la loro freddezza un corteo di schiavi, in modo che oltre a loro due ci siano soltanto la neve e una pacifica atmosfera di sole.
- Quindi lei sta dicendo che fu abbastanza facile nei Paesi fascisti rendere le persone indifferenti alle condizioni di uomini considerati “inferiori”, ma è così anche nella società odierna?
Probabilmente sì, anche noi stiamo diventando indifferenti alla condizione degli ultimi, o perlomeno questa è la denuncia portata da Papa Francesco nella sua Lettera Enciclica Fratelli tutti, facendo riferimento a due fenomeni molto diffusi nella nostra società odierna:
- 19. (…) La mancanza di figli, che provoca un invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle persone anziane, afferma implicitamente che tutto finisce con noi, che contano solo i nostri interessi individuali. Così, «oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani».
Abbiamo così imparato che esiste un minimo di umanità, e sotto quel minimo lo “scarto”; così come esiste un massimo e, forse, oltre il massimo, anche l’eccesso. È ancora Papa Francesco ad aprirci gli occhi su questa possibilità:
- 111. La persona umana, coi suoi diritti inalienabili, è naturalmente aperta ai legami. Nella sua stessa radice abita la chiamata a trascendere sè stessa nell’incontro con gli altri. Per questo «occorre prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici –, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (monàs), sempre più insensibile […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze».
Questo ci riporta allora all’Articolo 2 della Costituzione, a quei “ doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” che permettono di equilibrare i “diritti inviolabili” che rischiano, se esasperati, di diventare arroganti.
- La ringraziamo per la sua disponibilità e il tempo concessoci per questa intervista.
Grazie a voi.
Scheda 3 – Il “minimo” di uomo oggi